Ora parliamo di acquaviti, i liquori che si ottengono per distillazione. A seconda dei climi e delle usanze, i vari popoli hanno privilegiato la distillazione a partire da diverse basi vegetali: cosí gli irlandesi ricavano dall’orzo il
whiskey, e con differenti procedure in Scozia si fa il
whisky; dalle mele i francesi hanno ottenuto il
calvados, e nei caraibi dalla canna da zucchero si ricava il
ron cubano, in altre isole denominato
rhum. In Messico, la tripla distillazione dell’agave ci offre la
tequila. Ancora, ottime acquaviti si ricavano dalle prugne (lo
slivovitz), dalle ciliegie (il
kirschwasser), dalle pere (la
wilhelmine). In Italia si producono con orgoglio varie acquaviti, ma soprattutto due: la
grappa (dalle vinacce) e il
brandy (direttamente dal vino).
Il
brandy non è un’esclusiva italiana: lo si fa da varie parti del mondo, ma soprattutto nell’Europa mediterranea, ad esempio in Spagna e in Francia. Qui prende nome di
cognac e
armagnac solo in caso di provenienza geografica controllata.
La stranezza è che un distillato che è un po’ l’orgoglio nazionale di italiani, francesi e spagnoli sia denominato con il termine
brandy, di chiara derivazione anglosassone. Si tratterebbe dell’abbreviazione di un originario
brandywine, termine che l’inglese mutuò dalla lingua neerlandese e che significherebbe
vino bruciato.
Ma non esiste un nome italiano del brandy? In effetti sí: la parola italianissima per designare questa acquavite è
arzente, termine coniato nientemeno che da Gabriele D’Annunzio:
acqua arzente ossia
ardente, parola elegante che sventuratamente abbiamo lasciato cadere in disuso.
10 novembre 2011
Questo testo è proprietà intellettuale dell’autore, Ferruccio Sardu. La sua riproposizione, anche parziale, implica la citazione della fonte.
← Precedente Successiva →
Torna al menu delle Curiosità Linguistiche