Del mito della ninfa Rodope ci sono rimaste poche tracce. È citato di sfuggita da Ovidio nel sesto libro delle Metamorfosi (versi 87-89), dove leggiamo:
Threiciam Rhodopen habet angulus unus et Haemum,
nunc gelidos montes, mortalia corpora quondam,
nomina summorum sibi qui tribuere deorum¹.
La vicenda si riassume in poche parole: Emo, re di Tracia, e la sua consorte Rodope avevano instaurato nella regione un culto delle proprie persone, assumendo
i nomi di Zeus ed Era. Un atto di imperdonabile ὕβρις, per il quale i due sventurati ricevettero la giusta retribuzione, venendo
trasformati in montagne. Da allora i due hanno mantenuto i loro nomi, e ancor oggi possiamo ammirare, nella regione, il monte Emo e il monte Rodope.
Dallo Pseudo-Plutarco ricaviamo un ulteriore particolare: Emo e Rodope sarebbero stati fratello e sorella, e tuttavia si innamorarono; lo Pseudo-Plutarco ci
dice che avevano l’abitudine di chiamarsi reciprocamente con i nomi dei due dèi.
È piuttosto interessante il fatto che nel testo di Ovidio l’episodio sia citato all’interno della narrazione del mito di
Aracne;
in effetti i due monti sono raffigurati nella tela intessuta da Atena durante la sfida che la oppone alla straordinaria tessitrice lidia. La raffigurazione da parte
di Atena di Emo e Rodope, accanto ad altri esempi di hýbris punita, assume un carattere apertamente minaccioso nei confronti della sua antagonista mortale:
competere con gli dèi, questo è qualcosa che gli esseri umani non dovrebbero mai fare; soprattutto quando, come nel caso di Aracne, la sfida li porta a
surclassare le divinità.